sabato 9 febbraio 2008

LO SPAZIO BIANCO

Leggo Valeria Parrella, Lo spazio bianco.

Maria ha quarant’anni e vive a Napoli, dove insegna italiano alle scuole serali. Lo spazio bianco è un trimestre nella sua vita: dalla nascita della figlia Irene, venuta al mondo prematura e affidata all’incubatrice, fino al termine di questa gravidanza artificiale. Il padre è sparito da tempo, nel libro non ha nemmeno un nome. “Mi figlia sta nascendo, o morendo”, ripete spesso Maria durante le interminabili giornate d’ospedale. Ore scandite dai caffè al distributore automatico e dalle sigarette clandestine, dalla crittografia delle cartelle cliniche, dagli incontri in corsia. Per tre mesi il mondo è ridotto a questo minuscolo spazio, e la lotta per l’esistenza a un conflitto quotidiano con le istituzioni. I medici da una parte e le madri dall’altra - Maria, Rosa, Mina - donne forti, sole, combattive, sagge e impulsive e solidali.

Lo spazio bianco, perciò, è lo spazio di un’attesa. Irene può morire, può vivere e crescere sana, o può sopravvivere con danni neurologici permanenti. Nessun medico ha il coraggio di quantificare le probabilità. E Maria non può far altro che osservare sua figlia come dentro un acquario, sfiorarle le mani dall’oblò dell’incubatrice e usare il limbo in cui è precipitata per fare i conti con la propria vita. Non è una donna abituata ad aspettare, né a lasciarsi andare al fatalismo. È una persona colta che di mestiere combatte l’ingiustizia sociale: i suoi sono allievi senza titoli di studio, uomini condannati all’ignoranza dal lavoro minorile, donne rinchiuse in casa, gli stranieri della nuova schiavitù. Sono gli altri personaggi del libro, le comparse o forse il coro - perché lo spazio bianco è teatro per un solo attore, è il luogo murato e impermeabile in cui si trova Maria. Nemmeno Napoli è il palco ma una quinta lontana, strade attraversate in autobus e contemplate da una finestra d’ospedale, il paesaggio del sovrappensiero. C’è un bel racconto di Erri De Luca, La città non rispose, che ritrae lo stesso luogo. E nel libro si sentono gli echi di alcuni scrittori contemporanei: la provincia di Antonio Pascale, la piccola borghesia e gli anni Settanta, e la città di Erri De Luca. Napoli è nominata poco eppure impregna ogni riga di dialogo, è negli sguardi che incroci e nell’aria che respiri in ogni scena.

Lo spazio bianco è anche la riga vuota tra un pensiero e l’altro. Il libro è breve - poco più di cento pagine - e tolti un prologo e un epilogo non ha capitoli. A un certo punto, durante l’esame per la licenza media, un allievo di Maria le chiede aiuto: sta scrivendo un tema, gli sembra di avere completato un pensiero e non sa più come proseguire. “Mettici uno spazio bianco e ricomincia a scrivere quello che vuoi”, suggerisce Maria. La frase suona come chiave poetica, perché tutto il libro è così: scandito da brevi paragrafi - due pagine, una, a volte poche righe - e dagli spazi bianchi che li separano. La scrittura densissima rende queste unità narrative intense come meditazioni. Frammenti che si potrebbero anche isolare, o scombinare e riordinare secondo altri criteri, come i giorni tutti uguali dell’attesa. Costituiscono un’immersione sempre più profonda dentro la solitudine di Maria - tanto che, a metà del libro, anche il destino di Irene sembra assumere un valore secondario: “Io voglio che Irene viva, me ne importa solo di questo. Anzi, io non so neanche se voglio questo, voglio che questo incubo finisca presto. Chiaro?”

Lo spazio bianco, infine, è un cambio di rotta nel percorso di scrittrice di Valeria Parrella. Che esordisce nel romanzo dopo due raccolte di racconti - mosca più balena e Per grazia ricevuta - e sceglie un grande editore, Einaudi, lasciando minimum fax. Due scelte che sembrano segnare il raggiungimento di una maturità letteraria, ma anche, purtroppo, la fine di una bella anomalia: una scrittrice di racconti pubblicata da un editore indipendente, che vince premi letterari, scala le classifiche e diventa un caso. Adesso, con la copertina bianca e le pile di volumi in libreria, è tutto molto più normale. Però questi sono pensieri che non intaccano il valore della scrittura, e in fondo il libro è un romanzo solo nel nome: ha il ritmo e l’intensità dei migliori racconti, quelli che ti conquistano già dal titolo e non ti lasciano andare fino all’ultima riga.

***

Ammettere la sofferenza è stato per me molto difficile. Ho preferito credere a una continuità normale o ai momenti belli, la conquista del lavoro, l’estasi degli innamoramenti, la meraviglia della gravidanza. Solo a queste cose avevo dato verità. Quando il dolore mi aveva sorpreso non gli avevo creduto: era un inciampo, una cosa da mettersi davanti per superarla, per poi tornare a quell’altra vita. Così era stato per la malattia di mio padre, per la morte di mia madre.

Avevamo parlato a lungo, con Mina e Rosa, dei danni che la prematurità avrebbe comportato, degli handicap che forse ci avrebbero affollato la vita negli anni a venire. Lei lo sa? No, io proprio non lo sapevo, ma ero stata una buona alunna per tutta la mia vita, e avrei imparato.

Ricordai di aver visto, in una mostra sulle civiltà precolombiane, una maschera che aveva una metà del volto sana e sorridente, e l’altra corrosa dalla malattia. Avevo pensato all’artigiano pazzo che, cento anni prima dello sbarco spagnolo, un giorno aveva ficcato quel pezzo di terracotta in una forno, aveva accettato che le due parti cuocessero insieme.

Quel pazzo lo sapeva.

E sotto di me, ora, nella città incessante, lo dovevano sapere in molti. Camminavano, nell’ora rarefatta del primo pomeriggio, verso casa, la macchina, l’ufficio, con questa possibilità nei passi.

***

Valeria Parrella, Lo spazio bianco, Einaudi 2008

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