lunedì 15 settembre 2008

STOP WRITING

Ho avuto pensieri strani alla notizia della morte di David Foster Wallace. Il primo riguarda il metodo che ha scelto: l’impiccagione è una forma di suicidio molto razionale. Richiede intelligenza. Non è come spararsi un colpo in testa, né inghiottire una manciata di pastiglie, né fare un passo nel vuoto: non è questione di un momento di follia o disperazione. Bisogna trovare la corda (andare nel ripostiglio, frugare tra le scatole). Bisogna capire dove appendere il cappio (non è che tutti i soffitti abbiano una trave sporgente). Bisogna ricordarsi il nodo scorsoio (l’ultima volta l’abbiamo fatto da bambini). Insomma è un gesto che contiene una storia: sarà per questo?

(E quando hai scritto l’ultima riga, messo l’ultimo punto in fondo all’ultima frase, l’avrai saputo che erano gli ultimi? C’erano idee che hai lasciato lì, cose che ormai era troppo tardi per scrivere? E poi, sul tuo sgabello, un attimo prima di calciarlo via, da qualche parte della tua mente sprofondata nelle tenebre sarà comparsa quella lista. Virginia Woolf: acqua. Ernest Hemingway: fucile. Vladimir Majakovskij: pistola. Yukio Mishima: spada. Emilio Salgari: rasoio. Cesare Pavese: sonniferi. Sylvia Plath: gas. Da domani ci sarà un’altra voce nell’elenco. David Foster Wallace: cappio. Da domani tutto quello che hai scritto, i saggi sulla matematica dell’infinito, il romanzo da mille pagine incendiarie, quei tuoi racconti pieni di ragazzini, diventeranno un unico, lunghissimo biglietto d’addio.)

Scrittori suicidi. Sarà colpa della scrittura o eri già segnato prima, e ti sei messo a scrivere soltanto per ritardare quel momento? Io ho pensato che non ne so niente. Chi potrebbe avere questa presunzione, credere di sapere che cosa ti è successo? Poi ho pensato che invece lo so, perfettamente.

***

È TUTTO VERDE

Lei dice non m’importa se mi credi o no, è la verità, poi tu credi pure a quello che ti pare. Quindi è sicuro che mente. Quando è la verità si fa in quattro per cercare di farti credere a quello che dice. Perciò sento di non avere dubbi.
Si rasserena e guarda dall’altra parte, lontano, ha l’aria furba con la sigaretta sotto la luce che entra dalla finestra bagnata, e io non so cosa mi sento di dire.
Dico Mayfly, con te non so più cosa fare o cosa dire o cosa credere. Ma ci sono delle cose che so per certe. So che io sto diventando vecchio e tu no. E che ti do tutto quello che ho da darti, con le mani e con il cuore. Tutto quello che ho dentro di me l’ho dato a te. Tengo duro e lavoro sodo ogni giorno. Ho fatto di te l’unica ragione che ho per fare quello che faccio sempre. Ho cercato di costruire una casa per te, una casa di cui facessi parte, e che fosse una bella casa.
Mi rassereno anch’io e getto il fiammifero nel lavandino insieme ad altri fiammiferi, piatti, una spugna e cose del genere.
Dico Mayfly il mio cuore ha fatto il giro del mondo e ritorno per te ma ho quarantotto anni. È ora che la smetto di lasciarmi semplicemente trascinare dalle cose. Devo usare quel po’ di tempo che ancora mi resta per cercare di sistemare tutto e stare bene. Devo provare a stare come ho bisogno di stare. In me ci sono delle esigenze che tu non riesci neanche più a vedere, perché ci sono troppe esigenze tue di mezzo.
Lei non dice nulla e io guardo la sua finestra e sento che lei sa che io so, e seduta sul mio divano fa un movimento. Ripiega le gambe sotto di sé, ha un paio di pantaloncini.
Dico in fondo non mi importa di quello che ho visto o credo di aver visto. Non è più quello il punto. So che io sto diventando vecchio e tu no. Ma ora mi sento come se ci fosse tutto me stesso che va verso di te e in cambio non mi viene più niente.
Ha i capelli tirati su con un fermaglio e delle forcine e si tiene il mento con la mano, è mattina presto, sembra che stia sognando rivolta verso la luce pulita che entra dalla finestra bagnata sopra il mio divano.
È tutto verde, dice. Guarda come è tutto verde Mitch. Come fai a dire di provare certe cose quando fuori è tutto così verde.
La finestra sopra il lavello del mio cucinino è stata ripulita dal violento acquazzone di stanotte e ora è una mattina di sole, è ancora presto, e fuori c’è un casino di verde. Gli alberi sono verdi e quel po’ d’erba che c’è oltre i dossi artificiali è verde e liscia. Ma non è tutto quanto verde. Le altre roulotte non sono verdi e il mio tavolino lì fuori con le pozzanghere allineate e le lattine di birra e le cicche che galleggiano nel portacenere non è verde, né il mio furgone, o la ghiaia della piazzola, o il triciclo che sta rovesciato su un fianco sotto un filo per il bucato senza bucato accanto alla roulotte vicina, dove c’è uno che ha fatto dei bambini.
È tutto verde sta dicendo lei. Lo sta sussurrando e il sussurro non è più rivolto a me, lo so.
Getto la sigaretta e volto le spalle al mattino con il sapore di qualcosa di vero in bocca. Mi volto verso di lei che sta sul divano in piena luce.
Da dov’è seduta sta guardando fuori, e io guardo lei, e c’è qualcosa in me che non si riesce a chiudere, nel guardarla. Mayfly ha un corpo. È lei la mia mattina. Dite il suo nome.

***

David Foster Wallace, La ragazza dai capelli strani
(Traduzione di Martina Testa, minimum fax)

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