mercoledì 30 settembre 2009

OLIVE KITTERIDGE

Nella vita di un lettore ci sono lunghi periodi bui. Apri un romanzo e lo abbandoni a pagina sei, cominci un racconto e dopo poche righe stai già pensando ad altro. Ti sembra che niente, nel gioco della narrativa, riesca più a procurarti piacere. È finita la magia, calato il sipario sulla credulità infantile; forse sei irreversibilmente cresciuto. Dovrai abituarti a nuovi riti. Niente più lunghi pomeriggi in poltrona, in cui dimenticavi tutto e quando alzavi gli occhi dal libro era già buio. D’ora in poi leggerai Vespa e Veltroni la domenica mattina. Da grande, parlerai solo di romanzi scritti cinquant’anni prima. Succede a tutti, come tagliarsi i capelli e ammucchiare i vecchi dischi in uno scatolone: ora è successo anche a te.

Poi invece capita di trovare libri che ti danno quella vecchia, cara sensazione. E così tiri un sospiro di sollievo e pensi: ma allora non era colpa mia. Era colpa loro. Con Olive Kitteridge, di Elizabeth Strout, a me sembra di essere tornato ai tempi in cui leggevo L’isola del tesoro. La mattina scendo dal letto un po’ prima per leggere il prossimo racconto. La sera rinuncio perfino alla briscola chiamata online. Durante il giorno cammino a testa alta pensando: non è tutto finito. Ci saranno nuove storie da leggere, anche se forse saranno sempre meno e sarà sempre più dura trovarle. Non ho ancora tagliato i miei capelli, come cantavano Crosby Stills Nash & Young.

Intanto, dato che di questi tempi è necessario dire le cose chiare: Olive Kitteridge è una raccolta di racconti. Per confondere le acque, e illudere il lettore occasionale di trovarsi di fronte a un romanzone, sulla quarta di copertina viene paragonato a Via col vento, Furore e Il vecchio e il mare, che non c’entrano nulla uno con l’altro e nemmeno con questo, se non per il fatto che hanno vinto tutti il Premio Pulitzer. Altro colpo basso: nel libro non c’è l’indice. È una raccolta di racconti il cui editore italiano, Fazi, ha deciso di omettere l’indice, in modo che sembri un romanzo. Invece quelli del Pulitzer non si fanno problemi nella motivazione del premio: A collection of 13 short stories set in small-town Maine that packs a cumulative emotional wallop, bound together by polished prose and by Olive, the title character, blunt, flawed and fascinating.

Sono tredici racconti ambientati nella cittadina immaginaria di Crosby, Maine. In alcuni la protagonista è una donna di mezz’età, Olive Kitteridge; in altri Olive è solo una comprimaria; in altri ancora, come La pianista o Concerto d’inverno, entra in scena appena per un paio di righe, tanto per tenere insieme la raccolta. È una donna antipatica, invidiosa, maldicente, oppressiva con il marito e il figlio, e infatti il secondo a un certo punto se ne va a vivere in California, e il primo taglia la corda grazie a un ictus provvidenziale. Ci vuole del coraggio per costruire un libro intorno a un tipo così.. Eppure, miracolosamente, alla fine ti affezioni a Olive, alla storia del suo matrimonio e alle disgrazie del suo vicinato, al paesello di Crosby e ai suoi suicidi, aspiranti suicidi, depressi, accoltellatori di fidanzate, madri di accoltellatori di fidanzate, cacciatori che si fucilano a vicenda, vedove di cacciatori che non escono più di casa, pianiste in là con gli anni e alcolizzate, pretendenti timidi di pianiste in là con gli anni e alcolizzate, rapinatori di farmacie, farmacisti che si innamorano di commesse grigio-topo un po’ ingobbite. Quasi quasi, vorresti andare a viverci.

Libri che Olive Kitteridge mi ricorda:

Peter Orner, Esther Stories (in particolare la sezione intitolata “Storia di un matrimonio”. Ma i racconti della Strout sono meno fulminei, più distesi).

Ann Tyler, Un matrimonio da dilettanti (soprattutto i racconti che riguardano il rapporto tra Henry e Olive).

Alice Munro in Segreti svelati, o in Nemico amico amante: quelle strane storie in cui la vita ordinaria di persone normali prende una piega gialla, e un evento casuale basta a sconvolgere un’esistenza. Il primo racconto, Farmacia, potrebbe essere uno dei suoi per l’abilità con cui salta avanti e indietro nel tempo, dentro e fuori dalla testa dei personaggi. Non tutti sono alla stessa altezza. Ma Alice Munro è la maestra del racconto, Elizabeth Strout è su un’ottima strada.

Infine, questo libro mi ha riportato dritto a un viaggio di quattro anni fa.

Cose che mi ricordo del Maine: gli astici, anche se tutti pensano che siano aragoste. Ne pescavano a tonnellate, li mangiavi ovunque. Mi ricordo un chiosco per la strada, come i chioschi delle angurie da noi, dove tuffavano gli astici in un pentolone d’acqua bollente e te li servivano con le patatine fritte su un piatto di carta. Mi ricordo l’uomo-astice che ho visto sul retro di un ristorante a Portland. Poco prima stava lavorando all’ingresso, con il suo costume da astice e i volantini e gli slogan per attirare i clienti. Poco dopo aveva fatto una pausa: sul retro del ristorante era entrato in macchina e aveva preso un pacchetto di sigarette dal cruscotto. Ora fumava una sigaretta seduto sul cofano, con la testa d’astice sfilata che gli pendeva sulla schiena, contemplando l’oceano. Per motivi noti soltanto ai lettori di Rick Moody quell’immagine mi ha commosso (“Maschera di pollo era il ritratto della tristezza, sorellina”). Mi ricordo il motel con i cottage di legno e il bosco tutt’intorno, e le penisole lunghissime tra un fiordo e l’altro. Una di queste l’ho percorsa fino al capo. In fondo non c’era un villaggio né un porto né niente, solo un vecchio faro a qualche centinaio di metri dal molo. Per la bassa marea, il pezzo di mare tra il molo e il faro era una distesa di fango. Una turista tedesca seduta su una panchina stava leggendo un libro - se mi fosse successo ora avrei giurato che fosse Olive Kitteridge. Quando la marea è salita, una barchetta a motore ha attraccato proprio davanti a me. A bordo c’erano due ragazzi con la barba e i capelli lunghi, e siccome uno aveva i capelli rossi e l’altro neri, ho pensato che potevamo essere io e il mio migliore amico, che proprio quel giorno mi mancava. I ragazzi hanno scoperto le nasse e cominciato a scaricare gli astici in certi vasconi di plastica, e io ho immaginato me e il mio migliore amico che ci trasferivamo nel Maine e facevamo i pescatori. Ho pensato al vecchio Santiago e al ragazzo, a Forrest Gump e al tenente Dan, a Santiago quando gli squali gli hanno ormai mangiato tutto il pesce e al tenente Dan aggrappato all’albero di vedetta, senza gambe sotto la tempesta, che grida a Dio non ce la fai a tirarmi giù, è tutto qui quello che sai fare? Io e il mio amico saremmo stati pescatori del genere. Dentro le nasse erano rimasti anche dei granchi, ma per qualche motivo nel Maine i granchi non si mangiano, o è vietato pescarli, e così i ragazzi li prendevano e li ributtavano in mare.

Elizabeth Strout, Olive Kitteridge

(Traduzione di Silvia Castoldi, Fazi Editore)

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