mercoledì 16 dicembre 2009

SUL TIRANNICIDIO

Oggi non riesco ad aprire un libro, troppo assordante il rumore di quello che accade intorno. Così, tanto vale dire la mia. Trovo indegni gli editoriali dei quotidiani d’opposizione, che seguono tutti lo stesso schema retorico: inorridiscono per l’attentato al capo del governo; denunciano il clima di violenza politica da cui tale attentato è scaturito; richiamano i partiti, i media e l’opinione pubblica a rientrare nelle regole, confrontandosi a colpi di idee e non di souvenir. Li trovo ipocriti perché scritti da gente che fino all’altro ieri ha provato a tirare giù il capo del governo con scandali sessuali, l’equivalente giornalistico di un sampietrino. Li trovo ciechi perché non guardano più in là del proprio naso, come se l’episodio in questione fosse figlio di una stagione e non di un’epoca.

Io per esempio mi chiedo: come mai negli ultimi cinquant’anni praticamente tutti i presidenti americani hanno subito un attentato (con un presidente morto, uno ferito e diverse pistole che hanno sbagliato mira, o non hanno fatto in tempo in sparare), mentre da noi l’evento è così raro da sorprendere un esercito di guardie del corpo? Perché negli Stati Uniti il presidente è un oggetto di culto. La campagna elettorale è una battaglia uno contro uno: il volto del candidato è ovunque, il suo nome occupa berretti e adesivi, il partito di cui dovrebbe essere espressione viene dimenticato. Una volta eletto, il presidente va a vivere in un posto che è una specie di casa del Grande Fratello, dove lui e la sua famiglia sono sotto gli occhi di tutti. D’ora in poi risponde in prima persona davanti a un’intera nazione: c’è una crisi economica, una guerra neocolonialista, un uragano tropicale, un disastro ecologico all’orizzonte? Il presidente interviene alla televisione, il presidente riceve una chiamata dal Pentagono e decide su due piedi, il presidente si mette l’elmetto giallo e corre tra i terremotati, il presidente prende un aereo e va a parlare con un altro presidente. Io non so nemmeno chi siano i ministri del governo degli Stati Uniti, né quali poteri abbia esattamente il Congresso. Per il resto del mondo, e temo anche per la maggior parte dei cittadini americani, gli Stati Uniti non sono governati da una forza politica, né da una classe di amministratori, ma da una persona, e l’intero paese ha la sua faccia. La cattiva notizia è che questa incarnazione è appena avvenuta anche da noi. Ci sono voluti quindici anni per smantellare una solida democrazia parlamentare, ma alla fine è successo: oggi nessun italiano, di qualunque fede politica, prende minimamente sul serio il partito di maggioranza, né il parlamento, né il consiglio dei ministri. Qualunque cosa facciano in realtà, da fuori sembrano contenitori vuoti. Oggi per tutti noi chi ci governa ha un nome e un volto, uno solo.

Al di là di questioni da poco come la morte della democrazia, il culto della persona ha un effetto collaterale: nella gran massa dei cittadini ci sarà qualcuno che ti ama alla follia, e qualcun altro che alla follia ti odia. Quelli che ti amano sventolano le bandierine, cantano gli inni quando passi tu e lottano per essere il primo dei tuoi servitori, o la prima delle tue concubine. Quelli che ti odiano ti tirano in faccia miniature di cattedrali gotiche. Se la faccenda è più seria, sparano. Non si può avere una cosa senza l’altra. Le ragioni dell’odio, come quelle dell’amore, spesso non hanno niente a che fare con la politica: uno ti odia perché ha perso il lavoro, perché sta male e non ne può più di vedere il tuo sorriso, perché hai venduto il suo calciatore preferito a un’altra squadra, perché vorrebbe farsi le diciottenni e non può, perché vorrebbe le ali di folla e non le ha, perché tu sei un vincente e lui un perdente. Qui non c’entrano niente la destra e la sinistra. Se metti la tua persona davanti a tutto - davanti alle idee, ai movimenti, ai partiti, perfino alle aziende e alle squadre di calcio - sarà la tua persona ad attirare su di sé i sentimenti della gente, le genuflessioni dei fedeli e le pallottole dei tirannicidi. Se è amore quello che chiedi alla folla - non un semplice mandato politico ma devozione, il calore dei corpi, un comizio in Duomo come un concerto a San Siro - devi essere pronto a ricevere anche un bel po’ di odio.

Per questo ai cortigiani che ora sbraitano sulla spirale d’odio mi verrebbe da dire: occhio anche alla vostra spirale d’amore. L’assassino di John Lennon era un suo fan. Mi pare che da un meccanismo simile fossimo usciti nel 1945, con una persona idolatrata per vent’anni e finita a testa in giù in Piazzale Loreto. Quel periodo era bastato a generare gli anticorpi per il mezzo secolo che è venuto dopo, in cui a nessuno è mai venuto in mente di accogliere Andreotti o Fanfani con inni e bandierine (“Menomale che Amintore c’è!”), né di tirargli miniature in faccia. Ora gli anticorpi sono finiti, e ci siamo di nuovo in mezzo. Ecco perché fa un po’ ridere richiamare tutti quanti alla ragione: bisognerebbe invece prepararsi a vedere le pistole. E intanto chiedersi quanto siamo colpevoli per essere arrivati fino a qua, senza più uno straccio di idea, solo con una faccia insanguinata in mezzo e un deserto intorno.

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