lunedì 24 maggio 2010

DUE STAGIONI

Ora che è uscito il sole, trascorro molto tempo in giro per i boschi. Il confine dell’inverno si alza giorno dopo giorno: ogni tanto salgo a controllare dov’è, e se qualcuno dei miei laghetti è emerso dal ghiaccio. Azzardo qualche passo, svolto in un versante in ombra, affondo fino alla vita nella neve molle. Allora mi torna la smania di correre giù fino ai prati, e bastano pochi salti per viaggiare nel tempo. Intorno alla casa è già estate. “Lassù l’anno ha due sole stagioni, le estreme”, scriveva Giuseppe Giacosa. “Come in giugno l’ultima crosta di neve cova le erbe già vigorose e quasi fiorite, sicché da un giorno all’altro dove prima era tutto bianco il terreno appare dipinto di colori vivi, così in settembre, e talora al finire d’agosto, una notte sola trasfigura la terra, e il giardino si rimuta in deserto”. I giorni non finiscono mai. Quando il sole tramonta sulle vette più alte sono quasi le nove. La sera leggo vecchi diari di montagna e poi i Sillabari di Parise, i romanzi di Cormac McCarthy, qualche scrittrice italiana che piace a me. A volte, se sono fortunato, interrogo i libri e loro mi rispondono. Ho trovato un bellissimo brano di Simona Vinci, Un’altra solitudine, scritto in Groenlandia un paio d’anni fa. Ora è stato pubblicato da Einaudi nell’antologia Sei fuori posto. E a me è sembrato di aver ricevuto una lettera dall’estremo nord.

Per la cultura inuit, non c’è niente di peggio che essere soli. La solitudine è una condanna e un anticipo di morte. Si vive in comunità, con gli altri si mangia, si dorme, si va al gabinetto, si passeggia, si pesca e si caccia, a volte ci si ubriaca, con gli altri si vive, insomma, e senza altri non c’è vita. Le case groenlandesi sono composte da un’unica grande stanza comune e in quella stanza vivono a volte fino a dieci o dodici persone, adulti e bambini, anziani e neonati, tutti insieme: la privacy è un concetto che proprio non esiste. D’altra parte, gli eschimesi credono che l’isolamento sia segno d’infelicità. È quindi bizzarro che sia proprio qui, a Tasiilaq, in questo posto letteralmente in capo al mondo, in cui una persona sola è vista come una persona irrimediabilmente infelice, che io mi metta a scrivere di solitudine.

Oltre che riparo, la solitudine può essere anche ebbrezza, una concentrazione tesa, senza interruzioni, in cui il pensiero può svolgersi in tutta la sua completezza, come un filo da pesca che si srotola dalla superficie ghiacciata del fiordo, entra nel foro e sprofonda giù, trascinato dall’amo e dal peso, fino a raggiungere il fondo dell’Oceano senza incontrare nessun ostacolo.

Ma non è necessario essere artisti per desiderare, di tanto in tanto, qualche momento di solitudine. Ognuno ha bisogno di un luogo in cui essere solo, lontano dalle richieste e persino dagli sguardi degli altri, che anche quando sono sguardi animati dall’affetto e dalle migliori intenzioni, sono pur sempre sguardi, e gli sguardi prendono le misure, soppesano, anche involontariamente esprimono giudizi. C’è bisogno di un luogo che sia soltanto proprio. Perché essere soli è stare alla presenza di se stessi. Per qualcuno può essere un’esperienza meravigliosa e per qualcun altro, forse, un incubo. A qualcuno basta un giorno, o una settimana, a qualcuno servono mesi, forse anni. A qualcun altro, è sufficiente un solo istante per essere colto dallo sgomento. Ma non avercelo proprio mai, questo bisogno, nel corso della vita, a me pare sospetto: come fidarsi di chi non si fida di se stesso? Perché avere paura della solitudine vuol dire avere paura di quello sconosciuto che si cela dietro il nostro stesso volto.

5 commenti:

  1. Caspita, come ti invidio: per la montagna, per i boschi , per i tramonti sulle cime, e anche per la solitudine. Stare bene con se stessi significa essere felici ovunque.
    Ornella

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  2. d'accordo su tutta la linea.
    Kundera, non so dove, descrivendo un personaggio femminile dice che le rughe sul volto le erano state disegnate dagli sguardi degli altri.
    Sandra

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  3. la natura procede col suo ritmo delizioso e feroce. qui, intanto, la politica compie il suo scempio quotidiano ed è diventato impossibile stare a guardare, come respirare sott'acqua. anni fa forse qualcuno si ribellava. qualcuno sembrava volesse cambiare le cose, a torto o a ragione, ma ci provava. ora sono tutti addomesticati, pensano a ballottelli e a come uccidere il sabato sera. forse rimanere nei boschi è l'unico modo per resistere.

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  4. ciao anonimo, non sono d'accordo.
    diffido sempre di chi mi dice "ora non c'è più niente, ora tutti se ne fregano": di solito è una persona che rimpiange i suoi bei tempi, e sta guardando il presente dal balcone. ma i miei tempi sono questi e non ho visto quelli in cui "la gente si ribellava", perché non c'ero. il mondo per me è troppo grande e forse pure l'italia, ma posso darti il mio punto di vista dal quartiere bovisa, milano, che è il luogo in cui vivo quando sono in pianura. da quelle parti la gente si ribella ancora. fa politica e non si lascia addomesticare, compie delle scelte e lavora per cambiare le cose. certo uno può stare a casa a guardare la partita o uscire a cercare le persone come lui. ma non giudicare il presente da come appare nella televisione.

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  5. Mi son segnato tutti i libri citati.
    So che sei uomo di buone letture.
    Ogni quanto scendi in quel della Bovisa?

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