mercoledì 2 febbraio 2011

LE LACRIME DI MIO PADRE

È un buon periodo per gli amanti dei racconti e della narrativa americana. Ho cinque libri sul comodino, e ho appena scoperto il piacere di leggere a letto, la mattina, come prima cosa dopo avere aperto gli occhi. Comincio con un racconto di Yates, o di Canty, o di Cynthia Ozick, poi mi alzo a preparare il caffè e penso a come dare un senso alla mia giornata. Mi infilo un maglione sopra l’altro. Faccio trazioni alla sbarra e flessioni sul pavimento. Alla finestra controllo il cielo, pur sapendo che sole o pioggia non faranno alcuna differenza per me, se non per la luce che entrerà dall’abbaino o il tamburellare delle gocce mentre scrivo. Infine prendo la tazza di caffè, la penna e il quaderno e torno nel lettone. Per fortuna ci sono le storie a riscaldare l’inverno.

Oggi ho voglia di parlare di John Updike, Le lacrime di mio padre. Non ho mai letto un romanzo di Updike, mi spaventa la mole della sua produzione. Però ho sfogliato questa raccolta in libreria e ho letto il secondo racconto, “Archeologia personale”: parla della villa di un uomo e di come si è trasformata nel tempo. L’uomo immagina le vite dei quattro precedenti proprietari attraverso i reperti che emergono dai suoi terreni. Cartucce di fucile. Resti di copertoni. Frammenti di tazze di porcellana. Intuisce che la casa ha vissuto un’età dell’oro e poi un periodo di decadenza, si fa un’idea dell’aspetto di persone ormai scomparse e nelle sue passeggiate impara a convivere con questi fantasmi, perfino ad amarli. Racconto splendido. Un altro si intitola “Blackout”: in uno di quei sobborghi della costa est, un violento temporale provoca un’interruzione di corrente. Il protagonista, un uomo sulla sessantina, decide di farsi un giro in macchina. Tutte le villette sono buie, qua e là nelle finestre ondeggiano fiammelle di candele, il silenzio è impressionante. Nel centro della cittadina la banca e la posta hanno chiuso, e le persone si sono radunate all’aperto aspettando che torni l’elettricità. Il buio le ha spinte fuori da case e negozi. Sulla strada del ritorno, l’uomo incontra una vicina che conosce soltanto di vista. È spaventata. Suo marito è via per lavoro, lei era in casa da sola e il blackout ha fatto partire l’allarme. L’uomo si offre di riaccompagnarla e darle una mano. Nella villetta identica alla sua, è disorientato dalla disposizione delle stanze. Gli spazi si intuiscono soltanto, i mobili diventano ostacoli misteriosi. Lui si trova faccia a faccia con questa sconosciuta e si accorge della reciproca attrazione. Il buio, il temporale, la paura e l’improvvisa intimità caricano l’aria di tensione erotica. I due si avvicinano. Si baciano. Quando torna la luce, le prime cose che ripartono sono la lavapiatti e l’audio del televisore.
Anche le altre storie hanno protagonisti simili, uomini benestanti e in là con gli anni, spesso con qualche matrimonio alle spalle. Le loro città di provincia, le loro case. Figli adulti e ormai estranei. Vecchie fiamme che ricompaiono con le guance avvizzite e i capelli bianchi. I fantasmi dei padri. In fondo ognuno di questi racconti è un’archeologia personale: meditazione sui frammenti che la vita produce, e che testimoniano a noi stessi ciò che è stato.

Resto in ascolto per cogliere il rumore della prima auto in movimento, verso l’alba; aspetto che mia moglie si svegli, scenda dal letto e rimetta in moto il mondo. Le ore scorrono avanti a scatti pigri. A sentire lei, dormo più di quanto sia consapevole di fare. Ma sono senza dubbio vigile quando, alla fine, inizia a muoversi; sposta le braccia con gesti irritati, liberandosi a fatica da qualche sogno, e poi, nel chiarore sempre più intenso della finestra, scosta il lenzuolo e lascia scoperta la camicia da notte spiegazzata. Sento lo scalpiccio dei suoi piedi nudi intorno al letto, e molte mattine, adesso che sono in pensione e ho quasi ottant’anni, mi riaddormento per un’altra ora. C’è chi si prende cura di tutto, posso lasciarmi andare, il mondo non ha bisogno di me.
Lo specchio per radersi è appeso davanti a una finestra affacciata sul mare. Il mare è sempre pieno, piatto come un pavimento. O quasi: ha una delicata curvatura planetaria, a sorreggere pochi sfuocati mercantili e alcune navi da crociera che escono dal porto di Boston con un’avanzata impercettibile. Aerei ammiccanti venuti dai vari angoli del globo scendono lungo linee oblique, tracciando solchi ricurvi nel cielo, verso l’aeroporto a est della città. Con le pillole per prolungarmi l’esistenza nella mano sinistra, sollevo il bicchiere pieno, l’acqua resa più dolce dalla breve attesa sul ripiano di marmo del lavandino. Se interpreto bene le intenzioni di questo vecchio strampalato, sta brindando al mondo visibile, e al diavolo l’imminente scomparsa alla quale lui è destinato.

John Updike, Le lacrime di mio padre
Traduzione di Federica Oddera, Guanda editore

1 commento:

  1. "Coppie", l'unico suo che ho letto, è un bel romanzo. Credo che in parte sia in linea con quell'archeologia personale di cui parli tu.



    Il nuovo di Canty è bello quanto "Tenersi la mano nel sonno" ?

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